“Fede è sostanza di cose sperate/et argomento delle non parventi” dice Dante citando alla lettera San Tommaso. Mille anni prima, un altro Tommaso, che si era proposto di non credere se non in quello che vedeva e toccava, si era sentito rimproverare “Beati coloro che hanno creduto, senza aver visto” (Gv. 20, 29). Eppure il credente continua a cercare “cose”, fatti, dimostrazioni visibili e materiali per giustificare e alimentare la propria fede. Questo apre una serie di interrogativi di interesse psicologico.
Superando la deriva concettuale soggiacente all’uso confusivo della parola “mistica” individuare alcune caratteristiche della mistica autentica quale può essere considerata dal punto di vista scientifico della psicologia e, insieme dalla rispondenza ad una visione religiosa o almeno di alta spiritualità.
Sia il non credente, sia il credente, adottano, in linea di principio, una medesima prospettiva razionale nella rilettura filosofica e psicologica. Per tale prospettiva razionale, la parola “credere” ha il senso propriamente epistemologico ben definito dal fenomenologo E. Husserl: la credenza è un sapere della ragione che non è ancora una conoscenza criticamente certa di se stessa.
Le connotazioni del “mondo” religioso del fanciullo, rimandano ad alcune caratteristiche peculiari dello psichismo infantile ed, in particolare, sembrano accentrarsi nell’egocentrismo che é, per definizione, l’opposto di quell’apertura all’Altro che costituisce la condizione necessaria dell’incontro personale con Dio. L’interrogativo si fa quindi centrale e si pone sulla possibilità stessa per il bambino, e il fanciullo, di essere religioso. La risposta dovrà uscire da una serie di considerazioni.
In recent years post-Freudian psychoanalysis has shifted its focus of interest from the origins of religion as a cultural phenomenon to a concentration on personal religion in the case-history of the individual. This change becomes evident when one analyzes the most recent contributions from psychoanalysts of different schools. The idea that psychoanalysis of religion can be fruitful only when it refers to a personal developmental path has gained increasing acceptance. The first benefit of this change is the possibility it allows for circumventing all arguments about the truth value of religious beliefs. To achieve this aim, many authors adopt the notion of the “illusory transitional phenomenon” introduced by Donald W.Winnicott.
Diversamente dalla Sociologia, che studia forme concrete di religione e il loro continuo divenire, perseguendo sempre nuove categorie interpretative e metodologie per verificarle, la psicologia della religione, orientata al funzionamento della psiche a fronte della religione, studia le strutture e i processi (le regolarità e le specificità) dell’atteggiamento della persona religiosa, assunte come sostanzialmente stabili al livello intrapsichico, del singolo soggetto, e comuni e comparabili a livello interpsichico, degli individui e dei gruppi.
La psicologia si trova oggi a “fare i conti” con due opposti orientamenti che propongono di rendere ragione della vita mentale del soggetto o in termini di strutture e processi cerebrali o in termini di codici e pratiche vigenti nell’ambiente in cui l’individuo è immerso. Alla luce dell’opposta tensione tra riduzionismo biologista e de-costruttivismo discorsivo, si cercherà di prospettare una visione della psicologia che tenga sì presente lo strutturale radicamento del mentale nel corpo (e non lo consideri quindi come astratta architettura di unità di elaborazione o flusso di operazioni computazionali) e l’imprescindibile carattere situato della vita mentale, ma che riconosca la genuina natura intenzionale (quindi non fisica, ma neanche totalmente determinata dal contesto) degli atti soggettivi attraverso cui la persona dà senso alla propria esperienza della realtà.
Psychology is today having to reckon with two opposing orientations which propose to interpret an individual’s mental life either in terms of mental processes and structures, or in terms of the codes and practices which apply in the environment surrounding the individual. In the light of the opposing tension between biological reductionism and discursive de-constructionism, an attempt will be made to put forward a view of psychology which, though taking into account the structural rooting of the mind in the body and the inescapable situated nature of mental life, also recognises the genuine intentional nature of the subjective acts through which a person gives sense to his/her own experience of reality.
Se la teoria dell’attaccamento è relativamente recente, fatto ancora più recente è l’applicazione dei suoi modelli alla religione, i cui fautori principali sono certamente Lee A. Kirkpatrick e Pehr Granqvist. Io qui vorrei limitarmi a confrontare i rapporti tra teoria dell’attaccamento e psicoanalisi per quel che riguarda l’approccio psicologico alla religione. La mia tesi di fondo è che i due approcci, quello psicoanalitico e quello della teoria dell’attaccamento, in quanto focalizzati su due aspetti diversi del complesso fenomeno umano della religiosità
potrebbero coesistere e fornire specifici contributi, purché sappiano astenersi dal ridurre l’uno all’altro approccio e metodologia. Cercherò di argomentare che: l’attaccamento è (solo) un aspetto della relazione interpersonale con il “caregiver”; la complessità dell’atteggiamento dell’individuo verso la religione non è riducibile, né spiegabile, con le modalità predittive dell’attaccamento; esiste una differenza metodologica ineliminabile tra psicoanalisi e teoria dell’attaccamento.
Quando io nel mio lavoro giornaliero quale psicoterapeuta ascolto i miei pazienti, sofferenti di tante sindromi psichiatriche, ma in tutti i casi di pene da loro non sopportabili, di conflitti per loro insolubili, di difficoltà esistenziali di ogni genere da loro non affrontabili, io non penso ad altro che al loro singolo dolore e al modo di comprenderlo. La mia attenzione al singolo è tale, da non permettermi né di prendere appunti di quanto ascolto, o delle mie riflessioni al riguardo, né tanto meno di pensare a me distraendomi dal paziente. L’unico modo di pensare a me è solo quello di riflettere sul mio controtransfert. Anche gli intervalli fra una seduta e l’altra, dedicati al rilasciamento, al cancellare temporaneamente i ricordi della seduta passata onde essere totalmente disponibile per la prossima, non mi lasciano il tempo per riflessioni generali.