Velo e pluralismo religioso: fede, ateismo, laicità
Recentemente, il velo islamico è stato oggetto di una nuova attenzione pubblica che ha visto il coinvolgimento di diversi protagonisti. Benché non sia possibile svolgere una valutazione psicologica rispetto alla dinamica vissuta dalle persone coinvolte, si possono tuttavia fare alcune considerazioni generali rispetto alla modalità con la quale trattare il fenomeno religioso nel comportamento dei singoli e della collettività.
La narrazione pubblica della vicenda è nota: una giovane adolescente manifesta a scuola un disagio in conseguenza della rasatura del capo impostale dalla madre, come punizione per non avere accettato di indossare il velo. Le istituzioni intervengono allontanando la giovane dal contesto familiare, affidandola temporaneamente ad un istituto e aprendo un’indagine per maltrattamento a carico dei genitori. Una delle sorelle, poche ore dopo, prova a ridimensionare il clamore attorno alla vicenda osservando che la madre non ha imposto l’utilizzo del copricapo e che la rasatura era stata chiesta dalla giovane dopo che questa se li era rovinati tagliandoseli. Sebbene la famiglia in questione sia contemporaneamente descritta come lontana da atteggiamenti religiosi intransigenti, viene pubblicamente presa come esempio dell’ennesima discriminazione e limitazione della libertà personale. Stando alla narrazione offerta dai media, il rifiuto del velo rappresenterebbe una forma di protesta verso le tradizioni familiari: una ribellione spesso sottaciuta, di cui si parla poco e che vedrebbe in questo episodio l’indizio di un più ampio disagio sotterraneo interno a quelle famiglie immigrate di tradizione islamica.
Appena l’evento sale agli altari della cronaca nazionale, i diversi rappresentanti istituzionali laici si apprestano ad offrire il proprio parere sottolineando come il credo religioso non possa essere foriero di soprusi e limitazioni. Contemporaneamente, la comunità islamica sottolinea come l’imposizione di una fede religiosa non abbia alcun senso per la crescita della persona, tanto più se contrassegnata da duri comportamenti correttivi genitoriali che sfociano nel maltrattamento o nell’abuso. Da più parti poi si sottolinea anche come l’appello alla liberà e al pluralismo religioso non possa dare adito ad equivoci: la compresenza e l’accettazione di diverse tradizioni religiose non può giustificare forme di sopruso che ledono la libertà delle persone. Atteggiamenti imperativi, punitivi e persino ricattatori non possono trovare accoglimento in una società civile in base ad una malintesa libertà di culto.
Ed effettivamente il pluralismo religioso non può essere ridotto a semplice accostamento di diverse tradizioni religiose. Non è sufficiente tollerare la compresenza di diverse visioni: le diverse religioni sono chiamate ad interagire e a comunicare attorno alle modalità con cui l’uomo che si interroga su di sé e sul rapporto che egli intrattiene con la trascendenza. Tuttavia, il pluralismo religioso non questiona solo le modalità di credenza religiosa, richiamando il dialogo tra le diverse religioni, ma coinvolge in pieno tutta la società civile. Ciò vuol dire che coinvolge ogni aspetto del vivere comune tra le genti: anche il laico, l’agnostico, l’ateo rappresentano parimenti modalità di convivenza pluralistica con ciò che viene identificato come “religione” all’interno di una società.
Il pluralismo religioso si realizza nel dialogo tra la pluralità degli atteggiamenti verso la religione, siano essi declinati nei diversi comportamenti di fede religiosa oppure espressione di dubbio, di agnosticismo o rifiuto. Sotto questo aspetto, anche la laicità delle istituzioni partecipa al dialogo e non può costituirsi come semplice spettatore o presunto moderatore esterno: il valore della laicità veicola un atteggiamento, individuale e collettivo, verso la religione. Come sempre, non può essere interpretato come dato di fatto acquisito e definitivo, ma va costantemente negoziato nella trama dei rapporti personali, sociali, culturali.
Interrogare la pluralità degli atteggiamenti verso la religione significa promuovere una riflessione critica che si mantenga aperta, volta a riformulare costantemente gli interrogativi che l’individuo vive nel rapporto con la propria personale fede religiosa, non meno che nel rapporto con altri soggetti portatori di altre fedi, di incredulità o di laicità.
A questo proposito, riprendendo l’esempio del velo, c’è da chiedersi se le diverse istituzioni laiche (scuola, servizi sociali, tribunale) siano state in grado di svolgere, oltre che un’azione specifica relativa alla vicenda in questione, anche un’osservazione autocritica ed una valutazione della propria auto-implicazione rispetto alle azioni poste in essere. C’è da chiedersi se si siano interrogate sulla pluralità dei possibili significati di un dolore che ha trovato una propria forma espressiva nel simbolo religioso del velo: che cosa vuol dire per una giovane adolescente indossare o non indossare il velo? Che significato può assumere, nell’esperienza personale, il mettersi o il togliersi il velo a seconda delle diverse circostante ambientali? Quale dinamica identitaria si va costruendo nel contesto dei rapporti familiari e delle tradizioni d’origine? Quale impatto svolge il cosiddetto “costume europeo” nell’esperienza di una persona che costantemente “migra”, nella propria esperienza intrapsichica, da un’appartenenza gruppale ad un’altra? Come risuona la percezione del valore della laicità nell’esperienza personale di queste persone?
È pur vero che si è trattato di una condizione di grave tensione verificatasi all’interno di un contesto familiare e che ha visto risvolti socio-religiosi. Ma la risonanza, prima mediatica e poi politica, non ha esacerbato una situazione probabilmente già difficile sia per la ragazza che per il contesto in cui vive? Che cosa si intendeva evidenziare con la ribalta dei riflettori dei giornali e della politica? Forse che la laicità della istituzioni non tollererebbe simili conflitti intra-familiari? Mentre l’unica realistica azione concreta sembrerebbe la valutazione se si siano verificati maltrattamenti o meno, indipendentemente dalla tradizione islamica.
La comunicazione di massa, con le poco meditate reazioni delle istituzioni politiche, sembra invece aver divulgato, direttamente o indirettamente, l’idea stereotipica e pregiudizievole che vede nelle tradizioni islamiche la presenza sottaciuta di forme oppressive, annichilenti e irrispettose della libertà delle persone. Cosa che certamente può accadere, ma che non deve essere in alcun modo scambiata come condizione peculiare di una tradizione religiosa. Altrimenti, non ci si dovrebbe scordare delle pressioni e di quei piccoli ricatti di quei genitori, magari bravi cattolici, che impongono ai propri figli la frequenza obbligatoria del catechismo. Così come non si è soliti porre sufficiente attenzione verso coloro che, in nome di una specie di “par condicio”, mimano una supposta libertà di pensiero scoraggiando i propri figli a frequentare contesti religiosi… perché quando saranno “grandi” avranno la possibilità di “scegliere ragionevolmente” in cosa credere poiché “liberi” da influenze genitoriali.
In ogni caso, si ha a che fare con scelte dettate perlopiù da petizioni di principio che possiedono un valore securizzante (identitario) per chi le professa.
Ed è proprio nel contesto dei conflitti relativi allo sviluppo dell’identità personale che probabilmente va posta maggiore attenzione, specialmente se si vuole cercare di comprendere e aiutare persone che hanno vissuto l’esperienza della migrazione e dell’inurbamento in un contesto socio-culturale per loro straniero e alieno: un sentimento, se ci si pensa, che riguarda gli stessi cosiddetti autoctoni, che si trovano ad ospitarli proprio in quanto estranei.
Quali sono i motivi che hanno portato un nucleo familiare od un gruppo ad abbandonare il proprio contesto di vita? Quali speranze hanno riposto nel luogo in cui si sono quindi stanziati? Quali illusioni, quali delusioni? Quali rabbie? Quali rivendicazioni? Quali colpe? I gesti, le abitudini comportamentali e le consuetudini, i simboli della tradizione originaria trovano possibilità espressiva e riconoscimento nel nuovo contesto, oppure l’individuo è preso nella morsa di non sapere come fare, col rischio di creare fraintendimenti?
In ogni migrazione, qualcosa si infrange e qualcosa viene perduto. Il singolo individuo può portare in sé non solo i propri drammi, ma anche quelli ereditati dall’aver vissuto all’interno di una famiglia facente parte di una comunità che si è trovata a dover vivere in un luogo lontano dal proprio contesto originario.
Così, per lo psicologo potrebbe essere utile collocare il comportamento simbolico non solo sullo sfondo delle appartenenze gruppali, ma cercare di capire se vi sono e come sono i rapporti del singolo con le tradizioni d’origine. Cercare di comprendere le modalità di ingresso, partecipazione ed uscita del singolo ad un gruppo religioso; interrogare le matrici affettive dei rapporti familiari e della loro collocazione religiosa; cercare di comprendere le modalità di rapporto del singolo, della sua famiglia e della comunità con la più ampia società civile; e, per converso, cercare di comprendere come gli atteggiamenti e le credenze della società civile impattino sulla loro vicenda identitaria. Infine, provare a collocare il comportamento e l’atteggiamento del singolo all’interno del più ampio quadro della sua personalità, con riferimento alle eventuali aree di sofferenza che, qualche volta, potrebbero essere segno di un disagio psichico che può essere sanato. (S. Golasmici)