Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia
Estratto dalla Prefazione al volume di:
Gaetano Benedetti, (2005). Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia, Torino: Centro Scientifico Editore
Quando io nel mio lavoro giornaliero quale psicoterapeuta ascolto i miei pazienti, sofferenti di tante sindromi psichiatriche, ma in tutti i casi di pene da loro non sopportabili, di conflitti per loro insolubili, di difficoltà esistenziali di ogni genere da loro non affrontabili, io non penso ad altro che al loro singolo dolore e al modo di comprenderlo. La mia attenzione al singolo è tale, da non permettermi né di prendere appunti di quanto ascolto, o delle mie riflessioni al riguardo, né tanto meno di pensare a me distraendomi dal paziente. L’unico modo di pensare a me è solo quello di riflettere sul mio controtransfert. Anche gli intervalli fra una seduta e l’altra, dedicati al rilasciamento, al cancellare temporaneamente i ricordi della seduta passata onde essere totalmente disponibile per la prossima, non mi lasciano il tempo per riflessioni generali.
Ma nelle ore veramente libere i conflitti e i dolori dei singoli pazienti si uniscono in vaste sintesi; e queste vanno al di là dei problemi psichiatrici e psicoterapeutici, riguardanti ad es. l’origine, il decorso, l’essenza di una malattia psichica, la tecnica migliore per affrontarla e – last but not least – i miei errori in questa. Problemi ancora più vasti si affacciano alla mia mente: quale è il destino dell’uomo? Il senso dell’umana esistenza? L’origine e il significato del dolore? L’origine del male? La mia natura filosofica e la mia abitudine a riflettere già da adolescente su questi “interrogativi ultimi” della vita mi spingono a siffatti pensieri, che vengono interrotti naturalmente dalle cure familiari, prima fra tutte il colloquio con la cara mia sposa defunta.
Ora, io sono nato e cresciuto in una famiglia profondamente cristiana. Anche se l’educazione positivista delle scienze naturali e della medicina in particolare ha proposto nuove soluzioni dei problemi antichi dell’infanzia e dell’adolescenza (l’epoca delle meravigliose “certezze”), tuttavia le parole di mia madre sono rimaste profondamente radicate nel mio animo – come non potrebbero esserlo in un rapporto autentico?
Ecco quindi che pensieri cristiani sull’esistenza umana sorgono alla mia mente come risposte alle domande antiche e nuove. Tuttavia, queste riposte non bastano più. Non bastano più specie in psichiatria, ove tutta l’assurdità dell’umana esistenza ci interroga, ci inquieta, ci sfida. Il titolo di un mio libro recente: “La psicoterapia delle psicosi come sfida esistenziale” investe l’intera mia psicoterapia e l’intera mia esistenza.
Talora mi sembra come se una tensione interiore fra due poli talora dialetticamente opposti: quello cristiano e quello scientifico, mi faccia simile a molti dei miei pazienti scissi nel loro pensiero. Mi conforta però il pensiero di Freud, che la persona adulta è quella che sopporta l’ambivalenza. Se in questo spirito io rileggo le pagine da me vergate lungo le mie riflessioni, scorgo perciò, a seconda che io mi avvicini all’uno o all’altro polo, delle contraddizioni dialettiche – che non cerco di appianare, perché esse sono contraddizioni dialettiche che fan parte della mia natura. In questa epoca di discordanze, vivo la discordanza come ricerca mai finita.
Tento di raccogliere queste mie riflessioni in uno scritto che a mo’ di sfida intellettuale posso anche denominare: “Pensieri cristiani di uno psichiatra agnostico.” Agnostico, sì, perché nonostante il fondamento cristiano della mia “Weltanschauung” io non riposo in alcune delle verità asserite dal cristianesimo: le metto sempre in dubbio, le rinnovo per rispondervi dai più diversi punti di vista, e non lascio mai arrivare interrogativo alcuno alla sua soluzione.
E proprio in questo la mia esistenza si avvia ad una soluzione. Allora: agnostico, sì, ma quale agnostico? Un tempo, secoli fa, si sarebbe detto di me: di tipo eretico. Oggi, l’eresia più non esiste, e proprio il protestantesimo, che ho adottato nell’unione con la mia adorata sposa, offre al singolo, offre à me il diritto (e il dovere) di trovare risposte individuali ai grandi quesiti collettivi. Se dovessi definire il mio tipo di agnosticismo direi: agnostico attivo. Perché c’è infatti l’agnostico “passivo” che si stringe nelle spalle di fronte a certi interrogativi e potrebbe parafrasare Dante nel dire: “non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Passa, allora, ai tuoi interrogativi privati, di cui la vita ci fa quotidianamente abbastanza carica. No, io non sono di costoro, anche se li considero, da questo punto di vista, della loro ingenuità e spensieratezza, più felici di me. Io sono invece un “agnostico attivo”, che non si dà pace, “pensa oltre” e pur non trovando soluzioni “certe”, non dispera mai – perché sente di realizzare ed esaudire la sua vita nell’eterna ricerca.
E’ per questo motivo che io ho aggiunto alle tre parti del volumetto, che parlano prima del dolore, poi della colpa e infine del simbolo, una quarta parte, che contiene miei sogni avuti nei decenni passati, bensì durante la mia attività psicoterapeutica, ma per lo più senza esplicito riferimento a miei pazienti. Può sembrare strano che io come psicoterapeuta parli tanto di me, delle riflessioni che sorgono in me su problemi che vanno al di là dei miei pazienti, ma pur tuttavia suscitati dall’incontro con essi, e infine dei miei sogni. Ciò non ha la menoma ombra di egocentrismo. Gli è piuttosto che io sono diventato uomo nell’ascolto incondizionato dei miei pazienti, e come uomo obbligato alla riflessione filosofica di problemi che (al di là del transfert e del controtransfert) riguardano me non meno di loro: homo sum, humani nil a me alienum puto (Terenzio, Heautontimoroumenos, I, 1, 25).
A ciò ci aggiunge una riflessione di fondo riguardante il titolo del mio volumetto. Perché io parlo qui di riflessioni e di esperienze? Le esperienze sono certo l’humus da cui sorgono le riflessioni: ma talora, esse, come nelle esperienze mistiche o come in quelle psicoterapeutiche, sembrano di non aver bisogno del fatto riflessivo per toccare – o meglio, solo “sfiorare” – il fondo della verità. Questo pensiero è avvalorato dal fatto che esistono certe terapie fondate su esperienza senza necessarie (anche se tuttavia benvenute) riflessioni, mentre invece psicoterapie puramente riflessive non intaccano il fondo della personalità. Un mio amico che da decenni cura i suoi pazienti facendoli recitare tragedie dell’antica Grecia, o drammi moderni, ha fatto l’esperienza di certi pazienti (gravi) che non capiscono il simbolo, si identificano male con i personaggi da loro rappresentati, producono quindi “simboli distorti”. Ebbene, lui non li interrompe mai. Tali pazienti, che interpretano le figure teatrali in modo neurotico e perfino autodistruttivo, sogliono infine accorgersi da sé della loro psicopatologia e ringraziano il “supervisore” (se così lo possiamo chiamare) di aver loro permesso la recitazione senza commenti; il che parla a favore di un fondo di verità nascosto in ogni uomo, nascosto dall’ansia, l’aggressione, l’invidia, le cosiddette “passioni inferiori”. Il paziente le vede nello specchio di un se stesso tenuto in mano da un terapeuta.
Vi sono perciò terapeuti che addirittura negano l’importanza dell’interpretazione e restano aderenti alla comunicazione ad es. onirica, semplicemente costellandola coi loro affetti. Io non sono fra questi. Io so che la grande metafora, il grande simbolo, la grande cifra, che contemporaneamente vela e dischiude, sono rari. Per lo più le visioni interiori dei pazienti, i loro sogni disegnano una trama confusa, che senza “l’ossatura” dell’interpretazione non segna un’indicazione e sembra talora perfino contraddirsi. Qui, nel magma mutevole delle contaminazioni oniriche, è proprio l‘interpretazione (non certo definitiva, non certo assoluta, non certo “imposta” con violenza al paziente, non certo idealizzante la propria soggettività di pensiero ma tuttavia coerente, continua, logica, attenta a non fraintendere) – talora ostica per il paziente, ferma contro le sue resistenze, utile anche al terapeuta per concepire e costruire una “strategia delle cura“ -, che permette a questa di attuarsi; non dunque nell‘entusiasmo momentaneo del grande sogno, ma nel vasto arco di tempo di un lungo lavoro analitico.
Finisco questa mia prefazione col dire che ciò vale in psicoterapia come altrove. Interpretare i grandi disegni della Trascendenza, per quanto noi possiamo vederli e comprenderli, significa credere ad essa e dare un senso, una struttura di amore all‘esistenza umana.
In questo volumetto non volo tanto in alto, non vado alle conseguenze ultime di quanto detto; mi limito ad affermare la mia posizione critico-interpretativa di fondo e la mia indipendenza non solo da qualsiasi “dogma“ psicoanalitico, ma anche e soprattutto da qualsiasi chiesa e dottrina che vuol riservare a sé di saper leggere correttamente i messaggi della salvezza. Questo mio scritto, che non parla della psicopatologia dei pazienti, ma delle mie riflessioni accanto a loro, si rivolge tuttavia ai pazienti stessi e vuol esser letto anzitutto da loro. Poiché essi, che portano giornalmente il carico grave della loro sofferenza, ne hanno abbastanza della loro psicopatologia, per leggerne ancora la descrizione. Se essi decidono di rivolgersi a qualcuno per essere aiutati, è meglio che ne vedano l‘effigie, e anche se questa è, all’ombra delle sue riflessioni, una pallidissima effigie. Dico pallidissima, perché l‘essenziale in psicoterapia è l‘ineffabile; quel che non può esser guardato da fuori, per poter venir conosciuto, ma vissuto dal di dentro come soggetto – il quale è sia il soggetto del terapeuta sia il soggetto del paziente (che deve trovare un suo posto, un esser profondamente compreso per poter scoprire così il soggetto del terapeuta: un “soggetto transizionale“).[…]
Voglio aggiungere una parola sulla qualifica di religiosità che metto nel titolo di questo libro. Essa non deve né far pensare ai religiosi che qui, nella religione, io trovo la risposta agli innumeri problemi tecnici che la psicoterapia ci pone, e neanche l’ombra della presunzione, che la (loro) visuale religiosa sia migliore di quella “materialistica“ di altri psichiatri. Fra i miei collaboratori psicoterapeutici, che non ho mai cercato di influenzare nella loro ideologia, ho trovato altrettanta gente competente e preoccupata dell‘altrui, fiduciosa e operativa, che nella categoria (oggi divenuta abbastanza rara) di colleghi religiosi. (G. Benedetti)