Fantasmi dell’integrazione e dell’esclusione
L’incontro con persone che provengono da territori culturali diversi da quello che in modo forse sbrigativo viene indicato come “occidentale” pone interrogativi importanti per lo psicologo e per ogni studioso che si occupa del comportamento umano e delle sue motivazioni. La vicinanza e il contatto con altri linguaggi, diverse tradizioni religiose e abitudini socio-culturali interpella il “costume occidentale” aprendo a molteplici interrogativi sulle prassi politiche, sociali, educative ed anche psicoterapeutiche. L’incontro con chi appare come un estraneo rispetto alla propria condizione di esistenza movimenta sorpresa e inquietudine: se ci si pensa, la stessa radice latina hostis (straniero, nemico) permea anche il linguaggio anglosassone, che indica con g-host uno spettro oscuro, che aleggia come un’ombra emotiva nascosta tra le pieghe dell’esperienza psichica. Fantasmi che, se ignorati e non compresi, possono qualche volta prendere il sopravvento nell’esperienza personale e collettiva, colonizzando i comportamenti, le convinzioni e le scelte.
Il fantasma dell’univocità. Frequentemente si fa appello all’idea di integrazione quando si pensa a persone che provengono da tradizioni culturali e religiose diverse dal paese che le ospita. Nella sensibilità collettiva con integrazione si tende a indicare prevalentemente (quando non esclusivamente) un progressivo adeguamento dello straniero al contesto ospitante: a seconda delle diverse narrazioni e prospettive, lo straniero verrebbe invitato ad accettare gli usi, i costumi, le norme, le leggi, le abitudini del contesto ospitante, se desidera essere riconosciuto e compreso. Questa pressione ambientale genera un’attività psichica molto complessa, spesso sfuggente, tutt’altro che passiva e non esente da significativi rischi per la salute psichica. Infatti, lo straniero si trova a confrontarsi con il pensiero, il linguaggio, le abitudini, le credenze, le norme di un contesto che non conosce e che sollecita in lui una costante riorganizzazione e trasformazione dell’esperienza che egli ha di sé. Nel momento stesso in cui egli lascia alle spalle il proprio territorio, si addentra in una prospettiva sconosciuta (spesso incerta e avvertita disorientante) che contribuisce da subito ad una lenta modificazione del senso dell’esperienza identitaria: anche le rappresentazioni culturali che strutturano il sentimento di identità personale vanno incontro ad una primitiva trasformazione nell’incontro coi simboli culturali del territorio ospitante, assumendo una risonanza emotivo-cognitiva che inizia a discostarsi da quella abitualmente sperimentata nel contesto d’origine.
Questo delicato e complesso processo psichico avviene nell’esperienza migratoria, per così dire, “fisiologica”: persone che si spostano da un territorio culturale all’altro motivate da una ricerca personale, da un desiderio di trovare qualcosa che possa configurarsi come migliore orizzonte, come speranza per un nuovo avvenire. Spesso, però, nell’attualità non vediamo questo tipo di esperienza migratoria, poiché si tratta solo di viaggi della disperazione: una migrazione subita dal migrante stesso, dettata dalla necessità di sopravvivenza anche a rischio della propria vita. Una scelta che rappresenta frequentemente una costrizione: ultima chance e ultima spiaggia. Questo diverso contesto presenta maggiori rischi per la salute delle persone, che partono da un’esperienza personale spesso già contrassegnata dal dolore psichico. Se l’esperienza migratoria può rappresentare un rischio per lo sviluppo del dolore psichico, la dimensione della sofferenza assume un carattere ancora più profondo e drammatico dal momento che spesso la scelta di migrare è una condizione che il migrante stesso subisce: le violenze della guerra, della prigionia, della tortura, dell’indigenza e della fame impongono la fuga e la migrazione.
Il processo di integrazione, però, non è “a senso unico” e riguarda anche l’autoctono. Il sentimento di identità (comunque lo si voglia definire) è sempre un processo aperto e in divenire, non è autarchico e riguarda sempre almeno una coppia: il senso di sé si sviluppa e si trasforma nello scambio con ciò che è avvertito come non-sé, ovvero con ciò che nell’esperienza personale si affaccia anche come estraneo. Se ci si pensa, agli albori della vita, persino la madre (che pure con le sue cure si sintonizza con le esigenze del bambino generando in lui l’illusione di un appagamento onnipotente) rappresenta anche il primo corpo estraneo, che introduce l’esperienza della non completezza e, se tutto va bene, di una vivibile e ben tollerabile discontinuità nel senso di sé: la curiosità per l’ignoto. Questo costante processo di strutturazione e ristrutturazione del senso identitario avviene anche nell’autoctono, che si trova a confrontarsi con lo straniero, che giunge con la sua storia e i suoi simboli culturali. Il fatto stesso che possano sorgere nel contesto ospitante fenomeni di ostilità indica quanto immediate possano essere le risposte all’incontro con ciò che appare come estraneo e quanto siano potenti e radicati gli affetti che governano i comportamenti, le credenze, le scelte individuali e collettive (anche politiche). Questo processo stranisce l’autoctono, che finisce per sentirsi un po’ straniero a se stesso, provocandogli un dispiacere derivante dalla lesione inferta a quella che si potrebbe chiamare una grandiosa fantasia di univocità: un sentimento non propriamente consapevole su cui l’autoctono riposa, consentendogli di fantasticare di sapere chi egli sia. Questo fantasma psichico (spesso inconscio) può essere inteso come una sorta di autoconvincimento granitico di sé, come se il proprio senso di identità possa essere racchiuso in specifici confini o in una circoscritta e autocertificata definizione, eludendo o denegando ogni possibile sguardo che un altro può offrire, finendo per creare micro-autismi tanto arroganti quanto impoverenti: “lo so da me, lo vedo da solo chi sono, e so cosa bisogna fare”.
La violenza della categorizzazione. Sulla scena pubblica, è possibile intercettare segnali importanti di questo autoconvincimento identitario nell’uso retorico, sempre più frequente, di espressioni categoriali come “gli immigrati”, “gli italiani”, “i francesi”, “gli islamici”, “gli ebrei”, “i cristiani” e così via: categorizzazioni che evidenziano una progressiva paralisi nella capacità di pensare, probabilmente anche come esito di angosce e paure che debbono essere denegate per poter preservare un monolitico sentimento identitario la cui staticità viene scambiata per stabilità. Una modalità che finisce per radicalizzare l’appartenenza come principale criterio categoriale dell’identità, rivelando al contempo la profonda debolezza e inquietudine che accompagna atteggiamenti individuali e collettivi. Il torpore identitario viene quindi provocato e interrotto dall’ingresso di corpi sentiti come estranei che rimettono in moto il processo di trasformazione del senso di sé, forse in modo più incisivo e profondo, tanto da suscitare fantasmi individuali e collettivi carichi di angosce e paure spesso immotivate, poiché non hanno un riscontro sul piano della realtà: invasione, intrusione, sopraffazione, sottrazione sono fantasmi che entrano nelle case degli autoctoni, declinati in molte idee e concetti, magari anche apparentemente ben organizzati con senso compiuto e convincente.
L’ostilità, il rifiuto, i comportamenti discriminatori possono essere compresi come tentativi maldestri (talora patologici) di conservare un minimo di certezza che invece la precarietà a cui il senso di identità è esposto sollecita. Di fronte alla fantasia della minaccia e alla paura che ne segue, l’individuo e la collettività, quando non possono fuggire, contro-reagiscono: è così che si creano narrazioni e retoriche che giustificano una legittima difesa (magari armata) delle case, dei quartieri, dei confini. Si tratta di narrazioni che nel tempo si autoalimentano finendo per diffondere nel contesto sociale preoccupazioni ipertrofiche: un’amplificazione della presa emotiva che ogni racconto ben organizzato è in grado di suscitare, perdendo gradualmente il contatto con la capacità di valutare con senso critico la realtà.
La violenza dell’indifferenza. Colui che giunge dal mare è una persona con una storia. Questa semplice constatazione oggi rischia di essere banalizzata; d’altra parte, alcuni si potrebbero domandare se davvero c’è qualcuno che pensa che non sia una persona. Eppure, il timore che si stia imboccando un simile declivio non è del tutto infondato. Le vicende di queste persone non sembrano preoccupare molti e non destano neanche molta attenzione se non tramite una retorica diffusa che rende omogenea ogni vicenda individuale. Si potrebbe dire che nell’immaginario collettivo c’è un solo migrante: una figura che condensa in modo indifferenziato ogni singola esperienza. Le vicende e i percorsi personali sono oscurati e ridotti a narrazioni tipizzate in cui le parole ricorrenti sono “clandestino”, “criminalità”, “scafista”, “barcone”, “porto”, “sicurezza” (quella dell’autoctono). L’alone semantico che si costruisce nella percezione pubblica non è certo quello di “persona per bene” che è dovuta scappare sfruttando i mezzi che aveva a disposizione pur di aver salva la vita. Sicuramente, all’interno del caos prodotto dai processi migratori (e dalle violenze che spesso li alimentano) ci sono anche malviventi. I malviventi, però, fanno parte di ogni tessuto sociale (autoctoni compresi) e, per fortuna, di solito non rappresentano la maggioranza. A ben vedere chi si prenderebbe la briga di farsi un viaggio su simili acque e in simili condizioni, se non un disperato? Questa è una domanda che troppo pochi ancora si fanno: probabilmente, ci si interroga poco, mentre corrispettivamente c’è una larga fascia di persone che possiede (o crede di possedere) facili risposte risolutive. Probabilmente alberga una paura primordiale (forse tanto ontogenetica, quanto filogenetica) che porta a rappresentare il migrante straniero come un furfante, quando non terrorista, tanto più se clandestino. E con la stessa superficialità vengono stabilite equazioni tra tradizioni islamiche, pericolosità, fondamentalismo e violenza.
L’omogeneità indotta dalla retorica (anche politica) genera indifferenza: la persistente definizione riduttiva dell’altro produce, oltre che banale semplificazione, anche una sensazione di conoscenza, di ovvietà. La collettività è così portata a non interrogarsi sulla problematicità e sulla drammaticità dell’esperienza migratoria, spesso secondaria a vissuti disperanti e di dolore. Così come un tempo l’ebreo non veniva più percepito come persona, ma solo come individuo appartenente ad una categoria, prima invisa al sentire comune e poi legittimamente odiata dalle leggi, l’immigrato rischia di perdere una seconda volta la propria storia soggettiva, poiché incapsulato nell’indifferenza categoriale che atrofizza ogni capacità di pensare criticamente, facendo di lui soltanto un molesto rifiuto da spazzare via. Si è persino giunti a normare la violenza provando a inibire l’aiuto umanitario, dichiarandolo fuorilegge: che si sia prossimi ad una nuova (anzi, vecchia) banalità del male? Il richiamo al rispetto delle leggi può paradossalmente (perversamente) essere abietto: è ben noto che è possibile normare fucilazioni, redigere liste speciali, organizzare convogli e soluzioni finali nel silenzio e nell’indifferenza di molti.
Pochi riconoscono come queste persone rischiano di essere i futuri disadattati: prossimi portatori di sofferenza psichica con cui si dovrà avere a che fare. E gli autoctoni cos’hanno fatto per cercare di rispondere al dolore di costoro? Cosa è stato fatto per cercare di riparare il male, il dolore, la sofferenza di queste persone? Una sofferenza che riguarda anche l’autoctono in prima persona, benché lo voglia negare: sarà infatti complicato provare a capirsi e offrire risposte terapeutiche, se nemmeno si è prima cercato di evitare il peggio.
Il fantasma dello sradicamento e della colpa. Forse, però, non si tratta solo della paura dell’estraneo, con i suoi peculiari esiti di ostilità e indifferenza. C’è anche la colpa a dominare il sentimento dell’autoctono. L’immigrato non porta con sé solo la propria storia di simboli e tradizioni: porta anche la propria storia di dolore, di miseria, di fame. Probabilmente, l’autoctono è spaventato dalle diverse tradizioni con cui è chiamato a confrontarsi, ma più ancora dalla violenza subita che il volto dello straniero gli comunica. L’immigrato introduce nell’esperienza dell’autoctono il fantasma dello sradicamento, della perdita dei riferimenti identitari e culturali, facendo balenare in lui l’oscuro timore di poter fare la medesima fine, di divenire egli stesso lo sradicato, il mendicante, lo storpio, lo sbarcato. Si trova a doversi confrontare con la fragilità delle proprie sicurezze e con la volatilità delle proprie ricchezze: questi fantasmi disturbano troppo la tranquillità, la zona di confort o l’evasiva festosità dell’autoctono che, pur di non incontrarli, li relega al di là dei confini e dei mari. Pur di non accedere al sentimento di colpa che lo farebbe sentire anche ingiusto e meschino, l’autoctono si difende da ogni identificazione col dramma dell’altro (cosa che invece gli consentirebbe di provare responsabilità per offrire aiuto), mettendo in atto comportamenti eticamente discutibili, benché politicamente e legalmente normati: criminale per senso di colpa? (Stefano Golasmici)