Angoscia e libertà (Diana)
Recensione di Paolo Ciotti al volume di: Diana, M. (2002), Angoscia e libertà. Psicologia del profondo e religione nell’opera di Eugen Drewermann. Torino: Centro scientifico editore, pp. 404
Il lavoro di Massimo Diana ci introduce in un campo di riflessione e studio complesso ma affascinante, apparentemente riservato ai teorici ma estremamente vicino alla vita personale di ciascuno. Si tratta della intersezione tra mondo delle religioni e dimensione psichica dell’individuo e della collettività umana. Eugen Drewermann, prete diocesano di Paderborn, teologo e psicoterapeuta, esperto di religioni e letteratura, con la sua imponente produzione letteraria (dagli anni 60 ad oggi oltre 70 volumi, solo parzialmente tradotti in italiano) ha quasi costretto il mondo ecclesiastico, e in parte anche quello psicoanalitico, a confrontarsi sulla relazione che esiste tra la comprensione psicoanalitica dell’essere umano e il messaggio e il ruolo della religione cristiana e delle altre esperienze religiose.
Massimo Diana ci offre un lavoro, voluminoso ma accessibile alla lettura e attento a rendersi comprensibile, che presenta lo sviluppo del pensiero del Drewermann senza lasciar mancare un costante contrappunto critico. Il testo è opportunamente introdotto da Mario Aletti, curatore della collana di «Psicologia della religione» che, a partire da un punto di vista psicoanalitico, coglie gli spunti e i nodi problematici dell’opera di Drewermann consegnandola alla riflessione psicoanalitica, teologica e pastorale e auspicando che la conoscenza dell’uomo possa essere approfondita a partire dalle buone domande che qui sono poste. Alla fine del volume, un’appendice riporta il testo di un dialogo tra l’autore e Drewermann stesso, dialogo inedito che impreziosisce il lavoro. Diana si colloca nel versante della Psicologia della religione ma non si chiude in un orizzonte accademico o meramente disciplinare. Affronta con rigore i problemi dell’impostazione epistemologica e metodologica dell’opera e analizza quali e quanto pertinenti siano i riferimenti alla psicologia analitica di Jung, alla psicoanalisi di Freud e alle altre correnti psicoanalitiche. La competenza teologica del Diana gli consente di guidare il lettore alla comprensione del quadro generale nel quale l’opera di Drewermann si inserisce: coglie i risvolti teologici problematici del suo pensiero e le domande esistenziali che vengono aperte dalla sua originale riflessione. Egli rilegge le molte critiche che Drewermann ha raccolto in campo psicoanalitico e soprattutto in campo ecclesiastico nella loro duplice valenza: sono indicazioni di punti fragili e poco coerenti del procedere teorico dell’autore e sono insieme anche resistenze ad instaurare un dialogo aperto tra mondo psicologico e teologico. Un dialogo che Drewermann porta avanti in modo profondamente coinvolto e passionale, forse eccessivo, come i fatti della sua biografia confermano. Lo scontro polemico e la rottura con l’autorità ecclesiastica potrebbero essere interpretate come intrinsecamente legate al carattere innovativo della sua proposta intellettuale. L’immagine complessiva di Drewermann che emerge dal libro di Diana è quella di un teologo che per mezzo della psicoanalisi ha tentato con coraggio e genialità una purificazione dell’esperienza di fede con l’intento di innescare una prassi di profondo rinnovamento anche a livello istituzionale. Un rinnovamento che miri a mettere al centro dell’attività pastorale la persona con le proprie sofferenze e nel rispetto della sua libertà. L’opera di Drewermann sarebbe insomma la proposta di un pioniere che, pur con alcune importanti limitazioni, potrebbe fornire l’occasione per un progresso del dibattito e della riflessione a vantaggio della psicoanalisi, delle religioni e soprattutto della centralità dell’essere umano e delle sue problematiche esistenziali nella nostra cultura occidentale.
Diana presenta anzitutto il punto fondamentale dell’opera di Drewermann: l’esplicitazione di una nuova antropologia che l’autore compone intersecando con originalità teologia, filosofia e psicoanalisi. In una seconda parte del libro, Diana presenta la nuova proposta di lettura esegetica dei testi sacri che Drewermann utilizza ampiamente nella sua ricerca. I testi biblici, ma anche le fiabe, i miti, le leggende dell’umanità, sono sottoposti ad una ermeneutica che supera il tradizionale metodo storico-critico, tutto proteso ad esplorare l’archeologia del testo, mediante un metodo simbolico esistenziale che mira a coglierne le assonanze con la perenne condizione umana. I testi antichi vengono così fatti parlare ai drammi e alle angosce dell’uomo contemporaneo svelandone la loro carica simbolica ed esistenziale. Nella terza parte Diana presenta la riflessione di Drewermann sui chierici, la radicale critica all’ideale del sacerdozio cattolico e la sua proposta per intendere in modo nuovo, tenendo conto dei contributi della psicoanalisi, i tre noti consigli evangelici della povertà, obbedienza e castità. E’ questa riflessione che ha portato Drewermann alla rottura, tutt’ora aperta, con l’istituzione ecclesiastica. Ognuna delle tre parti del lavoro di Diana è accompagnata da specifici rilevi critici che problematizzano le tesi di Drewermann alla luce del dibattito da loro suscitato. Tra i nodi problematici più importanti ricordiamo i seguenti.
Il primo riguarda la prospettiva da cui Drewermann conduce la sua indagine. Egli assume una volutamente non definita posizione epistemologica tra teologia, filosofia e psicologia, anche se la sua prospettiva di fondo sembra rimanere quella teologica. Questo lo porta a far coincidere maturità umana e religiosa quando afferma la reciproca necessaria interdipendenza di psicoanalisi e religione per realizzare il processo di liberazione e individuazione dell’uomo Utilizza categorie filosofiche esistenziali, angoscia e libertà, come criteri per valutare la qualità dell’esperienza religiosa e psicologica delle persone, ponendo a fondamento del suo giudizio una visione filosofica specifica dell’uomo. E’ una posizione che rischia di generare confusione, come testimoniano le accuse di opposti riduzionismi (è accusato di psicologismo dai teologi e di apologia della religione dagli psicologi), e che non gli permette di essere classificato entro un unico campo disciplinare. Tale punto di vista gli offre però una originale posizione multidisciplinare potenzialmente capace di proporre nuove visuali e stimoli al dibattito sulla condizione umana.
Il secondo nodo problematico si colloca nella relazione tra dimensione storica e simbolica del dato religioso. In relazione al metodo esegetico di Drewermann Diana richiama i dibattiti suscitati dalle sue opere e rileva il rischio dello svuotamento dello spessore storico dei racconti biblici per una eccessiva sottolineatura del loro valore simbolico esistenziale, quasi che tutti i testi biblici, e di altre religioni, fossero da leggere solo come testimonianze dell’unica condizione esistenziale, universalmente identica, dell’uomo. Le differenze religiose sono così relativizzate e anche superate nel loro riferimento a quella visione antropologica che Drewermann ha posto a fondamento della sua ricerca. Dal punto di vista teologico cattolico quindi il pensiero dell’autore presta il fianco alla critica di condurre verso un sincretismo religioso che misconosce il valore unico della rivelazione cristiana e il primato di Gesù Cristo nell’economia della salvezza.
Un terzo nodo problematico si riferisce al processo di individuazione e al costituirsi della identità religiosa del singolo. Diana esplora le relazioni dell’opera di Drewermann con la psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica junghiana e giunge a mostrare come egli si avvicini maggiormente alla impostazione di Jung. Ma proprio l’utilizzo delle categorie junghiane di «archetipo» e «inconscio collettivo», per spiegare il significato profondo dei simboli religiosi e la loro necessità per l’individuo, colloca Drewermann al di fuori di una prospettiva strettamente empirica come quella richiesta dalla Psicologia della religione. L’opera di Drewermann si presenterebbe in questo modo più come il tentativo di mostrare l’esistenza di una struttura universale della religiosità intrinseca all’essere umano piuttosto che una ermeneutica delle varie forme storiche della religiosità umana. Le differenze sarebbero quindi ridotte in funzione della manifestazione di una struttura universale piuttosto che comprese come espressioni della unicità di un individuo e dei processi idiosincratici attraverso cui costruisce la propria identità, in un contesto storico e culturale specifico
Un quarto nodo problematico riguarda le figure del terapeuta e del sacerdote. In questa impostazione esse finiscono per sovrapporsi e confondersi l’una nell’altra. Il sacerdote non può non essere terapeuta per potere annunciare la salvezza religiosa, il terapeuta non può che portare il paziente all’incontro liberante con l’assoluto cui tutta la relazione terapeutica tende ed è preparazione. Diana rileva inoltre la problematicità dell’atteggiamento duramente polemico con cui Drewermann ha accompagnato il suo libro sui chierici e le critiche che esso ha suscitato. Tale atteggiamento non sembra improntato ad uno stile terapeutico che dovrebbe mostrare al paziente la sua nevrosi in modo da favorirne il superamento. C’è da chiedersi se lo stile della “interpretazione selvaggia”, che si espone fatalmente ad una reazione di rifiuto più emotiva che nel merito, sia stata una scelta opportuna nella prospettiva di un dialogo. L’impostazione di Drewermann, così come Diana la presenta, sembra decisamente orientata a illuminare la correlazione del dato teologico con le analisi psicologiche. Egli intravede nella teoria psicoanalitica e nella pratica terapeutica strumenti indispensabili alla presentazione odierna della salvezza cristiana, strumenti da cui la teologica contemporanea non può prescindere. Per Drewermann la salvezza individuale, intesa come liberazione dall’angoscia, giunge infatti al singolo solo mediante una relazione interpersonale improntata sulla accettazione assoluta. Tale relazione è il medium della relazione col divino offerta dalla religione e della sua pretesa di realizzare definitivamente la salvezza esistenziale cui ogni uomo aspira. A questo punto è evidente il fascino del percorso che Diana ci fa fare all’interno dell’opera di Drewermann, un’opera ancora aperta a diverse interpretazioni. La natura problematica di alcuni nodi e questioni importanti mostrano che Drewermann, come ogni autore geniale e coraggioso, ha saputo intraprendere un cammino solitario e controcorrente, anche se forse segnato da una eccessiva fiducia nella possibilità di giungere ad una sintesi sufficientemente coerente e comprensiva di un campo tanto complesso. Ma tali nodi problematici possono essere nell’attuale contesto anche occasione di riflessione, rilancio del dibattito interno alla psicoanalisi, alla teologia cristiana e del dialogo interdisciplinare. Le ambivalenze possono dunque essere occasione di approfondimento della comprensione del reale. (Paolo Ciotti)