Il COVID-19, l’infermiera, la preghiera
Trascrizione pressoché letterale delle confidenze di una infermiera, nei giorni drammatici dello scoppio della pandemia. Una notte si trova sola, nel reparto di terapia intensiva. Tutto è cambiato in due giorni: non più i “suoi” soliti postchirurgici cardiologici. Tutti i letti sono occupati dai malati di Covid-19. Solitudine. Morte. Solidarietà. Preghiera. (M. A.)
Noi siamo qui solo a fare certificati di morte. Io lo so, ciò che i giornali non dicono. Nessuno dei pazienti intubati ne è uscito vivo, finora. Quattordici letti, tutti uguali.
Di solito in Rianimazione, per noi c’è movimento, ansia, monitor che ti chiamano, sensori e allarmi. Tanti casi, tutti differenziati tra loro, personalizzati, individualizzati: una diagnosi, una patologia multiforme, una terapia continuamente monitorata. Arrivavano qui dopo interventi cardiochirurgici pesanti. Qui per riprendersi, per guarire, per uscirne; per morire qualcuno. Ma ora no. Qui, soltanto si muore. Qui tutto è fermo: tracciati stabili, sempre uguali, computer e video silenti.
Fino a ieri allarmi continui da ogni letto, ogni 10 minuti. L’allarme era pure un segnale di vita e anche un appello: ho bisogno di te, tu puoi farmi qualcosa, curami, guardami…sedami; tu hai delle competenze, delle possibilità.
Ora non ci sono segnali di allarme, e quindi di vita. Sconsolante. Come vorrei vedere un segno di vita, un sensore, un allarme, un’urgenza, almeno un gemito. Lunga fila di letti, nel turno di notte. Pazienti tutti uguali, tutti coricati sullo stesso fianco, tutti intubati, tutti con la stessa lucina notturna puntata sul corpo. 14 letti, 14 lucine… 14 fiammelle sulle tombe!
Tutti qui ad aspettare la morte, che già c’è. Questo è già il dominio della morte. E io, che ci faccio qui? Il mio mestiere è cambiato. Qui posso solo accogliere, compilare, sistemare, aspettare. Cartelle cliniche tutte uguali: c’è solo “quello”. Il resto conta poco, ormai.
Il Covid-19 riguarda il corpo, la biologia, il virus. Ma risuona nell’anima, di noi “guaritori”: impotenza, annichilimento, passività, depressione, morte. Probabilmente l’ho già preso anch’io; ho visto due colleghe … non ci fanno il tampone, perché altrimenti resteremmo a casa in tanti.
Glielo dico, anche a loro, “i Covid”, per convincere me stessa: Qui sei qui a morire. Nessuno si aspetta altro da te: domani, i politici proclameranno: abbiamo diminuito i numeri di pazienti in terapia intensiva, ce ne sono di meno. Certo perché tu, voi, sarete usciti, morti, numeri diminuiti. L’ha detto il Primario: tutti quelli che sono qui ora intubati sono destinati a morire.
E io, cosa faccio qui? Io testimone della crudeltà dispotica di un Dio che li ha colpiti; io testimone della misericordia di un Dio che li lascerà morire. Forse, chissà, qualcuno tra qualche giorno, tra un mese, qualcuno domani, forse stanotte stessa, morirà qui: con me e nessun altro. Io sono il solo testimone del tuo passo, l’unico pezzetto di umanità presente.
L’umanità esiste ancora, la pietà, la compassione, la sofferenza, forse la preghiera.
Ho pregato. Anche se non so come si fa, io non credente. Ma forse voi lo sapevate, voi “Covid” forse lo avreste fatto. Una preghiera, una per ciascuno: 14 “preghiere”.
Voi, tutti uguali come appestati, siete diversi come persone, avete tutti diritto ad affetto, lacrime, preghiere. Ho pregato. Perché io? Dove è il prete, dove sono i parenti? Che preghino loro…che sanno come fare. E i parenti: qualcuno che pianga, che si disperi, che chieda “perché?”, che bestemmi, che si lamenti, che ci denunci. No, questi no, non hanno nessuno.
Qui non c’è niente del mondo dei vivi; qui si deve solo morire. Grande fatica! Perché qualcuno sta qui giorni, anche mesi, non vuole morire. Ma solo il suo corpo non vuole morire, ritarda il momento.
Né prete, né parenti, né avvocati, né medicine, se non gli oppiacei, che familiarizzano la morte, la anticipano.
Tu stai morendo, solo. Solo con me. Solo anche domani: nessuno ti accompagnerà, e nessuno saprà come sei morto, quale è stato il tuo ultimo pensiero, chi aveva cercato il tuo ultimo sguardo lucido, prima dei narcotici.
E forse nessuno è là fuori ad aspettarti. Tutti avranno paura di te, anche da morto.
Ieri rileggevo La Peste di Camus: “Un uomo morto ha un peso solo quando qualcuno l’ha visto morto”. Cercheranno di non vedervi, di dimenticare. Ecco io ti ho visto! Anche io, voglio uscire da qui e sentirmi viva. “Pietà l’è morta” cantavamo sul pullman…Guarda cosa vado a pensare, ora! Quella era una parola cattiva, impietosa verso il nemico da ammazzare. Che noi, umani, siamo così cattivi (o così angosciati) da seppellire i nostri morti senza pietà?
La preghiera non cambia le cose, non ti fa guarire. Non rende presente la salute che ti manca, né l’affetto dei cari assenti.
Provo a pensare come era la tua vita; tante vite, tante storie, tanti racconti interrotti. Io prego per te, per te, te, te… per tutti voi.
Ma prego per me. Per sentirmi più umana, per non sentirmi morta, per non sentire che la pietà è morta, che la solidarietà è morta.
Per dire a me stessa che qualcuno ha pensato a te, che qualcuno ti ha visto, in questo tuo addio al mondo. Ecco, ho pregato. Certo voi non sapete che farvene. E neanche io. Ma almeno sono qui.