Psicoanalisi e Religione (Aletti & De Nardi)
Recensione di Massimo Diana al volume: Aletti M. & De Nardi F. (2002). Psicoanalisi e Religione. Nuove prospettive clinico-ermeneutiche. Torino: Centro Scientifico Editore.
La pubblicazione del volume degli Atti del Convegno Psicoanalisi e religione (Verona 19-21 ottobre 2001), rappresenta senza dubbio un evento di grande valore nel panorama culturale italiano, quello psicoanalitico in particolare. I curatori del volume – che sono stati anche tra i promotori del Convegno – Mario Aletti (Presidente della Società Italiana di Psicologia della Religione) e Fabio De Nardi (Direttore dell’Ospedale “Villa Santa Giuliana” di Verona) – sono riusciti a richiamare personalità di grande levatura nel panorama della psicoanalisi post-freudiana, sia italiano che internazionale, che si sono confrontati con teologi e filosofi in un dibattito di vasta portata e respiro. Questo confronto recupera, come ha ricordato Aletti nella Presentazione, “un ritardo che pare non solo culturale in senso stretto ma anche di costume… Che degli psicoanalisti si interroghino, da e in quanto psicoanalisti e nella prospettiva della psicoanalisi, sulla religione è il fatto nuovo, che rompe con abiti mentali e rigidità istituzionali” (p. VII). I contributi raccolti nel volume, pur riproducendo la molteplicità degli approcci e dei modelli teorici delle scuole post-freudiane, sono unificati dalla prospettiva rigorosamente psicoanalitica, cioè del soggetto, con cui si interrogano sulla religione: non la religione in sé, ma il vissuto religioso e le sue valenze in ordine alla costruzione della personalità dell’individuo.
La prima parte del volume – Psicoanalisi, religione e fenomenologia del sacro – raccoglie sette contributi dedicati ad una ridefinizione epistemologica dei rapporti tra i due ambiti in questione. Interessante quanto, nel saggio che apre il volume, evidenzia Antoine Vergote (Belgio): “la neutralità nei confronti delle convinzioni religiose o non religiose del paziente è un principio etico e tecnico fondamentale per lo psicoanalista. L’applicazione di questo principio è molto delicata, ma le idee e i sentimenti religiosi, non meno che la sessualità, l’interesse professionale e le relazioni familiari, dovrebbero restare al di fuori del trattamento psicoanalitico. E tuttavia, quali che siano le convinzioni personali dello psicoanalista, quest’ultimo dovrebbe avere una sufficiente conoscenza della religione del suo paziente. Auspicabilmente, questa conoscenza include anche una considerazione della fondatezza, dell’ambito e dei limiti delle interpretazioni psicoanalitiche dei fenomeni religiosi e delle distinzioni tra idee e comportamenti religiosi patologici e non patologici” (p.5). Al saggio di uno dei padri fondatori dell’odierna Psicologia della Religione fa seguito l’intervento del teologo Pierangelo Sequeri. Con ampi riferimenti alla filosofia del postmoderno e alla psicoanalisi lacaniana, l’autore presenta una immagine suggestiva, “l’entropia dell’Io minimo”, cioè “il lento soffocamento del soggetto autoreferenziale” (pp.35-36). “L’Io – evidenzia Sequeri citando Freud – non è padrone in casa sua… Ma il compito che gli viene comunemente assegnato dalla scolastica psicanalitica, quello di ritornare padrone, gli assegna un onere eccessivo, destinato ad un confronto assolutamente impari e al limite del delirio di onnipotenza” (p. 37). Questo comporta, nella prospettiva del teologo di Milano, un “ridimensionamento accettabile dell’Io desiderante” (p. 39), cioè un ridimensionamento di ogni idealizzazione della responsabilità dell’Io per assegnarle il proprio limite realistico. Ed è in questo ridimensionamento che consiste l’eticità della psicanalisi. Il saggio di Mario Aletti costituisce un pregevole punto d’arrivo dei suoi ampi lavori dedicati alla psicoanalisi delle relazioni oggettuali e alla connessa concezione della religione come “illusione”. Uno degli indubbi pregi del modello – dettagliatamente ricostruito da Aletti attraverso una rigorosa analisi storico-critica – è quello di essere nato dalla pratica clinica e di presentarsi come sufficientemente e coerentemente strutturato, in modo tale da poter essere verificato (o falsificato) nel corso del trattamento psicoanalitico. Ma, certamente, “la constatazione che la religione sia capace di procurare esperienze significative nella sfera transizionale lascia impregiudicato il giudizio di verità sui suoi contenuti, contro ogni apologetica, da una parte, ed ogni forma di riduzionismo, dall’altra. Lo psicologo non è interessato alla verità-falsità dei contenuti dell’illusione religiosa. Posto che l’illusione è considerata come un gioco del soggetto con la realtà, per lo psicologo l’illusione è vera in quanto illusione (cioè funzione psichica)” (p. 73). Il modello, inoltre, è in grado anche di rendere conto degli esiti negativi e destrutturanti dell’incontro dell’individuo con la religione: “nessuna garanzia è infatti data che la religione, nell’esperienza individuale, sia vissuta come un oggetto transizionale – e così può capitare che – la fede si corrompe in ideologia e la relazione religiosa espressa dall’’io credo in Dio’ diventa un assenso al contenuto dottrinale: ‘Io credo che Dio… Gli oggetti religiosi si riducono a talismani, la creatività personale, la fantasia e il gioco sono mortificate in stereotipia e ripetitività; il simbolismo religioso decade in realismo e fondamentalismo letteralistico nei confronti dei testi sacri; i riti religiosi scadono a rituali ossessivi, od esoterici, per iniziati; l’appartenenza alla chiesa o gruppo religioso si manifesta in fanatismo, o gregarismo e dipendenza; la fiducia nel leader degenera in ipocritica; la solidarietà e coesione interna si cristallizzano in chiusura e distacco dall’esterno, settarismo, paura del mondo ed impossibilità a crescere” (p.74). Ovviamente, anche questo modello non è esente da problemi, che Aletti evidenzia con rigore. Per quanto riguarda le questioni dei rapporti tra religione e salute mentale, che destano, in questi ultimi anni, un rinnovato interesse nell’ambito della psicoanalisi, Aletti sottolinea come, per il clinico che voglia attenersi alle proprie competenze, la domanda sul significato della religione “dovrebbe meglio declinarsi in una forma che non può superare (ma non può ignorare) la rilevanza psichica dello (psichico) credere. Non dunque se Dio aiuta, ma se il credere in Dio aiuta… Allo psicoanalista interessa come il paziente usa Dio come oggetto psichico ed, eventualmente, se e come la relazione con l’oggetto Dio segua le vicissitudini di altri oggetti psichici del paziente in analisi” (p. 78). E allora, conclude Aletti, “il significato psicologico della religione per l’individuo andrà ricercato nella collocazione che egli ne fa nella sua storia, in una linea processuale sempre imperfetta ed utopica, sia nella direzione della fede che dell’ateismo, sia sotto la modalità della egosintonicità che in quella della egodistonicità”.(Ibidem). Il suggestivo contributo di Fabio De Nardi si propone una lettura psicoanalitica dell’episodio biblico della Aqedah, il sacrificio di Abramo del figlio Isacco. La violenza immaginata dal pensiero religioso come pervasiva nel rapporto tra Dio e l’uomo, sostiene De Nardi, è speculare alla violenza constatata tra gli esseri umani, e in particolare tra genitori e figli. “La violenza istintuale del bambino, e la sua volontà di sopravvivere ad ogni costo, tende infatti a far emergere nel genitore… una reazione di rivalità narcisistica perché, in fondo, ogni neonato è anche imago del ‘futuro usurpatore’ che prenderà il posto di chi l’ha generato” (p. 102). Il significato profondo dell’episodio biblico consiste “nell’assunzione di una nuova paternità da parte di Abramo nei confronti del figlio Isacco” (p. 106). La vicenda sul Moriah si conclude con una separazione: padre e figlio si lasciarono e non si rividero mai più. Ma fu proprio questa definitiva separazione ad essere rigenerante perché sancì l’acquisizione di una nuova identità sia da parte di Abramo che da parte di Isacco. “Il mito sacrificale illumina allora – evidenzia De Nardi – l’incontro di un padre e di un figlio adolescente che intuiscono che il loro viaggio nella regione di Moriah è l’ultimo momento utile per potersi separare, in modo che ognuno possa vivere e prendere la propria strada” (p. 112). In questo senso l’Aquedah è “la rappresentazione del passaggio dall’Edipo negato all’Edipo vissuto, e la narrazione della trasformazione della paternità narcisistica di Abramo, che da uomo potente, ma incapace di riconoscere l’altro nella sua alterità, diviene padre capace di amore oggettuale” (p. 116). Conclude la prima sezione il contributo di Giorgio Sassanelli, dedicato alla dimensione narcisistica nel sacrificio e nel sacro. Il sacro può essere definito come una potenzialità dalla quale l’essere umano dipende ai fini della propria sicurezza; e precisamente della “sicurezza narcisistica, intendendo per narcisismo qualsiasi relazione del soggetto con sé medesimo, in vista della realizzazione di un proprio valore, identità e sicurezza esistenziale, relazione che si compie secondo una modalità di rispecchiamento sia pure metaforico” (p. 122). L’autore, dopo aver evidenziato e commentato tre forme del narcisismo (il ‘narcisismo ideale’ – la diade madre-bambino e il rispecchiamento; il ‘narcisismo idolatrico’ – emblematicamente rappresentato da Hitler e dalla Shoa; e il ‘narcisismo grandioso’ – del quale è possibile vederne una rappresentazione nel sacrificio atzeco), così conclude: “se non è concepibile una cultura priva di aspetti sacri e sacrificali… altrettanto inimmaginabile e fonte di rovina è una cultura dove la sicurezza dell’individuo e del gruppo risulta fondata esclusivamente o prevalentemente sulla dimensione sacrale e sacrificale (vedi le diverse forme di fondamentalismo). Sul piano più individuale, se una mancanza di sacralità, intesa anche laicamente come insieme di valori fondanti, porta a una situazione esistenziale di insicurezza e precarietà scarsamente tollerabile o decisamente rovinosa, una deriva eccessiva verso il sacro ideale tenderà prima o poi a sfociare verso un chiaro masochismo; il prevalere del sacro idolatrico porterà l’individuo e il gruppo sulla china di un ancor più pericoloso sadismo; mentre se a dominare è il sacro grandioso, sarà il rischio di un’onnipotenza delirante a incombere sull’essere umano” (p. 131).
La seconda parte del volume – Psicopatologia e clinica delle esperienze religiose – raccoglie otto contributi unificati da ampi riferimenti all’esperienza clinica, nelle sue varie forme. Il saggio di Gaetano Benedetti indaga “l’origine delle religioni da un punto di vista psicologico” (p. 136) ed individua nel concetto di “mancanza esistenziale”, una sorta di “angoscia archetipica”, tale origine psicologica delle religioni. Attraverso ampi riferimenti alla sua esperienza di lavoro, Benedetti evidenzia come il delirio religioso sia caratterizzato da una duplice polarità: la presenza, spesso inconscia, della propria assoluta miseria umana, e l’unione simbiotica con Dio. Sul luogo di incontro fra Psicoanalisi e Religione Benedetti si esprime con grande passione: “Il nostro lavoro ci confronta con quella che potrei chiamare ‘la mancanza psicopatologica assolutamente radicale’. È questo un confronto che investe l’intera persona del terapeuta. Ora, l’incontro con tale mancanza assoluta, nell’intenzione di limitarla, va al di là della pur assolutamente necessaria comprensione psicodinamica, ed ha cioè una dimensione di Re-ligio. Di fronte all’abisso della sofferenza, che nel controtransfert pone in forse anche lui, il terapeuta è in relazione con tutto l’universo (p. 143). Di grande interesse appare il contributo di Ana-Maria Rizzuto (Boston) che sottolinea anzitutto come “l’esplorazione delle tematiche religiose è una componente indispensabile del processo terapeutico” (p. 185). Fin dall’inizio il terapeuta, mentre raccoglie la storia personale del paziente, deve essere pronto a integrare lo sviluppo e la pratica religiosa attuale all’interno della intera storia personale del paziente. Ma sempre, “durante il trattamento l’analisi del vissuto religioso deve rimanere esclusivamente al servizio della comprensione del paziente, e cioè delle sue motivazioni, delle sue convinzioni, dei suoi bisogni e dei suoi desideri” (p.186). Successivamente, la Rizzuto evidenzia la stretta connessione che vi è tra l’universo religioso e il processo di sviluppo di un individuo: “una connessione inseparabile che esiste tra l’esperienza del mettersi in relazione con gli oggetti umani e il modo personale con cui ogni individuo si confronta con le credenze e i riti religiosi offerti dalla cultura, allo scopo di trovare il suo spazio psichico per esistere e per darvi un significato” (p. 187). Importanti le conseguenze dal punto di vista clinico: “trascurare la dimensione religiosa in un trattamento psicoanalitico – scrive la Rizzuto – significa ignorare l’elaborazione privata di momenti significativi dello sviluppo in cui il fanciullo ha fatto ricorso al suo Dio, alle sue idee, sentimenti e convinzioni religiose per riorganizzare la propria esperienza coi genitori e con se stesso” (p. 195). Nella stessa linea, anche la relazione di Edward P. Shafranske (Irvine, California) che focalizza l’attenzione “sul significato dell’esperienza religiosa nella formulazione, espressione e rielaborazione del conflitto psicologico che si determina nell’ambito del trattamento psicoanalitico” (p. 231).
La terza parte del volume – L’esperienza religiosa e la sua pensabilità – raccoglie cinque contributi di matrice prevalentemente filosofica. Il primo, introduttivo alla sezione, di Umberto Regina, è dedicato al tema della verità e del bisogno umano di verità: “una verità che non è risposta incontrovertibile, soddisfacimento esaustivo, identità compiaciuta di sé, ma eccedenza che suscita sempre nuove domande, che scopre i veri bisogni, che fa di ogni diversità una differenza da amare” (p. 279). Di notevole rilevanza il saggio di Aldo Giorgio Gargani. Il problema del rapporto tra esperienza religiosa e psicoanalisi, afferma Gargani, “è un problema di senso, e non già quello di un appello all’irrazionale” (p. 282). “I simboli dell’esperienza religiosa non sono i designatori rigidi di entità ontologiche… ma sono l’annuncio e il presagio del sacrificio di parti della vita in vista di altre che non sono ancora e che dalla loro irrealtà rivendicano un significato più decisivo della realtà esistente, nella prospettiva del quale l’uomo si porta in un altro stato cui sente di appartenere, mentre non lo ha ancora raggiunto. E qui precisamente si colloca il punto di contatto fra esperienza religiosa e psicoanalisi. Questo processo si compie senza uscire da se stessi, senza pretendere di afferrare una verità al di fuori di sé come qualcosa che si agguanta allungando una mano dalla non-verità, ma in conseguenza di un movimento interiore che compie un trapasso, un salto nella vertigine dell’ancora non detto e dell’ancora non fatto, in un regime di verità a mezza luce, in una condizione non satura di significato e di verità” (pp. 283-284). In questo senso, “la verità è anche una promessa di verità e di felicità, è anche una fede che si risveglia nell’intrapresa di ogni iniziativa. È una cosa la fede, come l’amore, come la comunicazione psicoanalitica che non si tocca, che non ha odore, sapore, spessore tangibile, che non si può nemmeno dire e indicare; è la segreta motivazione che ci ingaggia nel gioco della vita e della ricerca, che ci fa muovere non si sa dove verso ciò che è altro, e verso gli altri uomini beninteso e i luoghi insaturi della loro esistenza interiore” (p.300). Il saggio di Mario Ruggenini pone direttamente a tema la questione della verità in psicoanalisi. Secondo l’autore, la psicoanalisi non può che combattere ogni sorta di agnosticismo rispetto alle grandi questioni dell’esistenza, perché le questioni sono l’esistenza e l’incontro tra psicoterapeuta e paziente non può non essere un incontro tra esistenze. “Ecco allora il tema verso cui vogliono richiamare l’attenzione le mie riflessioni: la verità come evento, che si produce nella relazione tra le esistenze, quando queste non si chiudono all’insondabile dell’esistenza, della salute come della malattia, ma in generale all’enigma del vero che custodisce la sua irriducibile trascendenza” (p. 312). Conclude la sezione – e il volume – il saggio di Salomon Resnik sulla metafora della “maschera” e del suo rapporto con la verità. “Guardare dietro la maschera è espressione di curiosità metafisica o scientifica, ma è anche una trasgressione. Essere psicoanalista significa vedere e capire quello che è nascosto o rimosso nell’essere umano e nella cultura. Questo implica una grande responsabilità morale, visto che ogni incursione nell’intimità dell’altro è in un certo senso una desacralizzazione. Per tale motivo ogni ricerca sull’ignoto richiede un proprio rituale” (p. 325). Attraverso l’esemplificazione clinica di due casi, l’autore si sforza di delineare l’homo religioso e conclude in modo suggestivo affermando: “la storia del dolore umano non è una religione. Sotto la maschera di ogni credenza, c’è il sentire, c’è il ricordo, la nostalgia per le origini, quel gran salto nell’ignoto del bambino che nasce” (p. 336). Al termine di questa rassegna dei contributi presenti nel volume segnaliamo ancora la ricchissima bibliografia presente in calce che, già da sola, costituisce un prezioso strumento per studiosi e studenti. Ci preme sottolineare ancora una volta la ricchezza e la varietà dei saggi presentati. Un dibattito di tale portata e qualità va senza dubbio salutato come un evento nuovo per il mondo psicologico e psicoanalitico e per la cultura italiana che è andato a rompere “con abiti mentali e rigidità istituzionali” (p. VII). La determinazione, la fiducia, e la generosità con cui le Sorelle della Misericordia hanno organizzato il Convegno presso la loro casa di cura per gravi disturbi mentali e, successivamente, pubblicato questo elegante volume degli Atti, è da salutare dunque come un gesto magnanimo e lungimirante che apre prospettive assolutamente nuove sul rapporto tra psicoanalisi e religione. (Massimo Diana)